Il 4 e il 5 aprile a Drama Teatro Magda Siti e Stefano Vercelli in “L’ultima volta che ho visto il mio sangue” da un testo di Elena Bellei

Dove finisce il mio sangue. Quando non si trasforma in figlio. Se lo mangia una montagna. Non va perduto…

L’ultima volta che ho visto il mio sangue il bello spettacolo portato in scena da Magda Siti e Stefano Vercelli (che ne ha curato anche la regia) tratto da un testo di Elena Belli va in scena nei prossimi giorni a Drama Teatro. L’avevamo visto allestito in un appartamento del centro storico in occasione della rassegna contro la violenza sulle donne. Lo rivedremo ancora il 4 e il 5 aprile alle 21 questa volta nell’ambito degli appuntamenti dedicati all’8 marzo. Entrambe le rassegne sono state curate da Irene Guadagnini attrice e assessora del Comune di Modena. Prenotazione obbligatoria. Biglietto intero 10€, ridotto 8€ (under30 e over60)

Il testo di Elena Bellei, nato da interviste e da fatti di cronaca è un flusso di coscienza, un monolgo interiore che la protagonista ingaggia con se stessa. Passando in rassegna quel tanto o quel poco che un evento naturale, (l’appuntamento mensile che macchiava le mutande di rosso), le ha lasciato, al limite della vita feconda. Un figlio? Una abitudine al segreto? Un sospiro di sollievo? Niente più che una coscienza tardiva della dimenticanza, da parte del mondo, di quel miracolo del corpo.

La scena è stilizzata. Si direbbe un disegno immobile, geometrico, interrotto da gesti essenziali. Seduti a un tavolo una donna e un uomo (presumibilmente una moglie e un marito) incorniciati da un salotto borghese. Una camicia candida e una cravatta, lui. Un tailleur, un filo di perle con cui giocherellare di tanto in tanto, lei. In una perfetta simmetria, rivolti al pubblico, occupano ognuno una metà del tavolo, in intima sintonia con gli oggetti/specchio che hanno davanti a sé (un computer e un piccolo leggio da tavolo). Oggetti come prolungamento di sé, mediatori terzi, che interrompono il dialogo diretto di una relazione a due, che pare logorata. E’ come un lutto la fine della vitalità feconda, che nessun rituale ha mai celebrato. Basterebbe poco. “Se avessi saputo che era l’ultima volta, lo avrei salutato”. Dice la donna.  Un rito di chiusura “solitario” perché tra  le scomposte rappresentazioni del sangue, esibite senza pudore in scenari sacri o guerrieri, l’unico che non ha cittadinanza è il sangue femminile. La prima volta la si può raccontare. Insieme al sentimento di vergogna o di fastidio o di stupore che l’hanno accompagnata. L’attrice in scena ha la forza visionaria di ripercorrerla e di farcela vedere, proprio così com’era andata allora. Con Nina, l’amica adolescente che la raggiunge in campagna per mostrarle le dita sporche di sangue dopo averle passate sotto le mutandine. “Avevamo sentito l’odore di ruggine e non smettevamo di ridere… per fare un dispetto al peccato”. Pare lontano il tempo dei divieti: Fuori da qui nei giorni del mestruo. Fuori dalla chiesa, dalla moschea, dalla sinagoga… Ma l’esclusione ha segnato le cellule del corpo, nei secoli dei secoli. Che si raccontava allora alle bambine? Quali parole di benvenuto erano spese allora? Solo le raccomandazioni delle vecchie, di lavare il sangue con acqua fredda, altrimenti resta la macchia. Niente di più. In fondo è solo natura, che c’è da dire. Poi il pensiero della donna si sposta  altrove e così le immagini visionaria prendono corpo su quel sangue verginale tanto ambito dagli amanti. Perché se c’è una macchia sul lenzuolo, allora io sono stato il primo! E sul sangue della piccola Marta gocciolato in terra in sacrestia, che pareva sangue di gatta, pulito in fretta, che nessuno sapesse la verità. E il sangue di Rosa che aveva sporcato la vasca della mammana quando aveva provato ad abortire il figlio di uno stupro. Una narrazione che si fa sempre più cruda, che a tratti procura disagio per l’indifferenza dell’uomo, seduto a fianco, che non smette di consultare lo schermo del computer che libera sospiri You Porn,  rumori di spari, annunci pubblicitari. Un spettacolo intenso, preciso, introspettivo, volutamente disturbante, così com’è disturbante quel tabù duro a morire, che diventa rifiuto del cuore stesso del femminile, della sua creatività, amata, odiata, forse invidiata.

“Nemmeno nella pubblicità si mostra il sangue mestruale così com’è – dice l’autrice Elena Bellei – Diventa azzurro. Si può mostrare tutto, guerra, violenza, ma quello no. Come fosse vergogna. Ottenere la vergogna della natura biologica delle donne indebolisce la loro differenza, e non rende merito a un evento fisiologico che al contrario ha in potenza una grande forza vitale. La vergogna ha un costo minimo per chi la infligge e offre molto beneficio (potere), soprattutto se condivisa. Produce, per contro,  in chi la subisce gravi danni, evidenti in molte culture”.

Chissà che anche  questo esperimento teatrale non sia una chiave di lettura del cambiamento. Si potrebbe dire che è un’ impresa sempre più ardua continuare a tenere a bada il corpo delle donne. E anche se il nesso sangue femminile e violenza non sia immediato è certo che la ricostruzione in scena di un contesto domestico su cui aleggia una cappa di muta ostilità ci rimanda alle pagine di cronaca nera. Un tema universale nello spazio piccolo del quotidiano, che arriva ad avere una forte valenza politica. Grande maestria degli attori in scena che riescono a scuotere emozioni contrapposte e accendono dibattiti al termine della rappresentazione, specie sul finale a sorpresa.

Drama Teatro

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